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Vola l’export dei formaggi ma la trasparenza latita


E’ record per l’export di formaggi e latticini che nel 2014 ha raggiunto 2,2 miliardi di euro, registrando un aumento del 4,8% sul 2013 e oltre 331 mila tonnellate con +3,3%; questo, nonostante la crisi in Ucraina che ha quasi dimezzato le spedizioni per Mosca e una valuta ancora forte. Lo afferma l’Ismea, nel precisare che ottimi sbocchi sono arrivati dall’est Europa, in particolare Polonia, Repubblica Ceca e Romania con un aumento in volumi rispettivamente del 18%, 9%, e 22%.
Performance interessanti, seppure in corrispondenza a quote di mercato ancora esigue, anche in Cina (+41%), Corea (+26%) ed Emirati Arabi Uniti (+28%); dinamiche positive anche in Francia (4,3%), Germania (+6,5%) e Regno Unito (+1,9%). Tra i diversi segmenti l’Ismea evidenzia un buon andamento per formaggi freschi (+3,1% in volume), grana a denominazione (+3,4%), provolone (+7,2%), gorgonzola (+2,7%) e grattugiati (+9,7% in volume).
In particolare crescono i freschi soprattutto in Germania (+8,2% in volume) e in Francia (+7,0%), a fronte di una flessione nel Regno Unito (-2,5%). Grana Padano e Parmigiano Reggiano, di contro, hanno registrato l’incremento maggiore oltremanica (+9,1%), mentre sono aumentati meno sul mercato tedesco e transalpino (rispettivamente +3,7% e +2,1%), con una battuta d’arresto negli Usa (-5,2%). Il Gorgonzola, infine, è stato molto più apprezzato nei Paesi Bassi (+13,9% in volume) e nel Regno Unito (+7,3%).
L’export dei prodotti alimentari, tra cui i formaggi, sta trainando il nostro sistema agroalimentare e ne garantisce la tenuta, mentre i consumi interni continuano a risentire della difficile congiuntura nazionale. Nel 2014 l’export agroalimentare italiano ha registrato un record storico, raggiungendo il valore di 34,3 miliardi, con un aumento del 2,4% rispetto all’anno precedente.
Eppure c’è chi non vede tutto cio’ di buon occhio. Ultima in ordine di tempo Marta Messi di Slow Food, che su La Stampa di domenica 12 aprile ha contestato le “filiere lunghe”, i cui terminali sono all’estero, perché “portano con sè anche meno trasparenza, meno buon senso nella gestione delle risorse ambientali e meno economia locale”, ignorando che la rinuncia all’export significherebbe il disastro non solo per il nostro agroalimentare, ma anche per tutta la nostra economia, che già non nuota in buone acque. Per altro, nelle filiere lunghe possono trovare la giusta valorizzazione anche i prodotti locali, la cui internazionalizzazione è utile anche in chiave turistica e di promozione dei nostri territori all’estero.