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Materie prime, è polemica sul “segreto di Stato”


La Coldiretti nel 2009 aveva annunciato il progetto della “filiera agricola tutta italiana” con “il marchio valoriale FAI“.
“Il prodotto agricolo cento per cento italiano firmato dagli agricoltori, sarà offerto – aveva fatto sapere la Coldiretti – attraverso la più estesa rete commerciale nazionale che coinvolgerà duemila mercati di campagna amica e duemila punti di vendita delle cooperative, mille dei consorzi agrari, cinquemila agriturismi e diecimila aziende agricole, ma anche la rete della ristorazione a chilometri zero e la distribuzione che intenderà partecipare”.
A cotanto annuncio è seguito poco o nulla. Non essendo riuscita a salvare il made in Italy con il progetto casereccio della “filiera agricola tutta italiana” la Coldiretti ha deciso di puntare sul nemico esterno. Il metodo del nemico esterno, reale o presunto che sia, funziona sempre e serve a ricompattare il fronte quando le grane interne aumentano. La Coldiretti prima si è esibita al Brennero bloccando, si fa per dire, le frontiere, ed ora ha deciso di mettere nel mirino il “segreto di Stato” sui flussi di importazione di materie prime dall’estero.
In realtà non c’è nulla di segreto negli acquisti intracomunitari o nelle importazioni da paesi terzi di prodotti agro-alimentari, visto che ogni prodotto ha un suo specifico codice doganale, fissato a livello comunitario, con il quale si possono rintracciare i quantitativi in parola. Tutti i dati relativi alle importazioni di prodotti agroalimentari sono accessibili e sono a disposizione degli organi di controllo deputati a contrastare le frodi e le sofisticazione, che li possono utilizzare se e quando lo ritengono necessario.
L’iniziativa della Coldiretti è chiaramente strumentale. Dopo le sceneggiate al Brennero, con tanto di agricoltori in giacconi giallo fluo di produzione non italiana, la Coldiretti ha individuato nella lotta al “segreto di Stato” il nuovo modo ”mediatico” per riproporre il solito mantra contro le importazioni “per salvare il made in Italy“. Il made in Italy però non si difende ostacolando le importazioni di prodotti esteri con norme protezionistiche o che possono apparire protezionistiche, il cui esito sarebbe soltanto quello di generare ritorsioni da parte degli altri Paesi nei confronti dei nostri prodotti, ma attraverso una regolamentazione dell’etichettatura sempre più attenta all’indicazione dell’origine e della provenienza degli alimenti, trasformati e non, cosicché i consumatori possano scegliere e preferire i prodotti italiani.
L’obbligo di indicare la provenienza dei cibi – che fino ad oggi vale solo per la carne fresca bovina, suina, ovina, caprina, per i volatili di corte, per frutta e verdura, miele, olio di oliva – va esteso a tutte le produzioni. Per i prodotti non trasformati il luogo d’origine deve riguardare il Paese di produzione. Per quelli trasformati devono essere indicati il luogo dell’ultima trasformazione sostanziale e quello di coltivazione o allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata.
L’Italia ha tentato più volte di legiferare in tal senso, ma è stata stoppata dalla Ue perché la normativa sull’etichettatura è una questione di competenza dell’Europa. L’obbiettivo rimane comunque irrinunciabile. Il mondo agricolo e tutti coloro che hanno a cuore la tutela del valore e dell’eccellenza dei nostri prodotti devono continuare a sollecitare le nostre Istituzioni nazionali perché conducano in porto l’obbligo dell’indicazione d’origine in tutta Europa. L’occasione giusta sarà la prossima Presidenza italiana del semestre europeo. Le iniziative estemporanee ed autoreferenziali di questa o quella Organizzazione lasciano il tempo che trovano.

Roberto Barbero – Presidente Cia Torino