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L’impronta idrica e la cattiva informazione


Un articolo apparso su “La Stampa” il 15 novembre scorso, pagina 71, cronaca di Torino, titolava “Un chilo di carne rossa costa 15.000 litri d’acqua” e continuava “L’allevamento di un capo richiede 5000 metri cubi l’equivalente di due piscine olimpiche”. Fonte dei dati il gruppo di ricerca WaterInFood del Politecnico di Torino.
Il dato dei 15.000 litri di acqua circola da molto tempo ed è usato dai vari movimenti ecologisti ed animalisti per colpevolizzare i “signori della carne” e lanciare anatemi contro i cosiddetti allevamenti industriali. Il dato lascia una traccia nell’immaginario del consumatore che quando mangerà una bistecca penserà di distruggere qualche metro cubo di acqua e di compromettere il futuro del Pianeta.
E’ bene precisare che il dato di 15.000 litri per un kg di carne si riferisce all’acqua virtuale, ossia all’acqua connessa all’intero ciclo di produzione di un kg di carne, non all’acqua che il bovino beve o all’acqua di servizio, che è cento volte di meno.
Scrive l’articolista: “il nome virtuale non deve trarre in inganno – spiegano i docenti Luca Ridofi e Francesco Laio, che ha (ma non sarebbe più corretta la terza persona plurale hanno, dal momento che i docenti sono due?) ottenuto importanti finanziamenti dal ministero per i progetti di ricerca –. In questo campo nulla è più reale del virtuale”.
Il dato dei 15.000 litri citato nell’articolo de La Stampa è però vecchio come il cucco e non è farina del sacco del gruppo di ricerca del Politecnico, come potrebbe sembrare leggendo l’articolo.
Lo si trova, ad esempio, nel sito www.acquavirtuale.it : “Sull’impronta idrica incidono soprattutto gli alimenti di origine animale. Per un chilo di carne di manzo si usano 6,5 chili di granaglie, 36 di paglia e 155 litri di acqua. L’impronta idrica equivale a 15.300 litri”. Curiosamente sono le stesse parole che compiano nella didascalia della foto che accompagna l’articolo su La Stampa.
Chi conosce l’inglese, può accedere al sito www.waterfootprint.org” del prof. Arjen Hoekstra dell’Università di Twente e direttore del Water Footprint Network – inventore dell’impronta idrica, l’indicatore che permette di calcolare il volume d’acqua utilizzato per un determinato prodotto – e trovare lo stesso dato.
Entrambi i siti forniscono anche l’impronta digitale di molti altri prodotti agricoli, dall’arancia al caffè.
Non si sa quanto i dati siano attendibili, ma non compete a noi verificarli, né ne abbiamo la competenza. La domanda che qui viene da fare è un po’ provocatoria, ma non più di tanto: quale sarebbe l’impronta idrica di un alimento cresciuto in un bosco? Quale potrebbe, ad esempio, essere l’impronta idrica di una fragola di bosco e quale quella di un frutto identico ma coltivato? Il trucco logico sembra essere proprio qui: l’impronta idrica esiste solo per i prodotti del lavoro umano, per gli stessi prodotti cresciuti in natura l’impronta idrica è zero. Sembra che qualcosa non vada.
Il ciclo dell’acqua è sempre lo stesso, sia che vada ad innaffiare un bosco, sia che venga raccolta in un bacino idrico per l’irrigazione, la quantità di biomassa che potrà sostenere è la stessa: il problema allora è solo una corretta gestione di questa risorsa, che se non viene raccolta nei bacini viene “gettata via” nel terreno e nei fiumi.
Superfluo dire che da quando si è affermata la visione del Club di Roma, il cui fondatore Aurelio Peccei definì l’umanità come un cancro del pianeta Terra (o Gaia per i più esigenti), l’Uomo è diventato un parassita e ogni problema viene affrontato coerentemente con questa prospettiva.
(Confederazione italiana agricoltori del Piemonte)