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Chatus del Bric Aut di Brondello e bollicine delle Clarisse di Saluzzo, come nascono due storie d’amore


C’è chi si innamora nelle vigne e chi delle vigne, in entrambi casi il comune denominatore è la passione, senza la quale l’amore non avrebbe senso, oltre che sapore.

E’ così che il presidente del Rotary di Saluzzo, Giovanni Benedetto, ha voluto dedicare una serata conviviale al vino, frutto dell’amore che nasce nelle vigne, oltre che per le vigne.

In cattedra, due protagonisti amatoriali: Luigi Fassino, agente immobiliare, saluzzese Docg, e Santo Alfonzo, siciliano verace, ma, come i migliori vitigni, felicemente trapiantato nel Marchesato, dove dirige il Servizio di prevenzione sicurezza e ambienti di lavoro dell’Azienda sanitaria locale.

Grazie a loro, il Saluzzese può vantare l’inedita produzione di due vini di esclusiva nicchia: lo Chatus del Bric Aut di Brondello, opera di Alfonzo, e il Brut Le Clarisse, metodo classico, prodotto da Fassino nella vigna dell’ex convento delle clarisse, attiguo alla Castiglia di Saluzzo.

Due coltivazioni sostenute dalla storia, oltre che dalle amorevoli cure dei loro mentori e padroni.

Alfonzo ha scelto lo Chatus, “perché è della famiglia dei Nebbioli e va bene in montagna”. Il gusto della sfida, di cimentarsi con la materia viva della vigna, gli è venuto con l’acquisto di un terreno a Brondello, 700 metri sul livello del mare, dove c’era già una piccola vigna di Pelaverga e dove vegetano anche i banani. Un microclima da colpo di fulmine. Ha messo a dimora 700 piante, da cui ricava, con la procedura classica dei vini rossi, 500/600 bottiglie di Chatus, che non mette in vendita, ma tiene per sé e regala agli amici.

Facendo scorrere le immagini dei dolci pendii della sua proprietà in valle Bronda, Alfonzo ricorda i tempi, non lontani, in cui il vino era semplicemente considerato un alimento, per lo più in forma sfusa: «Soltanto nell’Inghilterra di inizio Settecento – racconta -, il vino in bottiglia ha iniziato ad assurgere a status delle casate più importanti. Da lì, acquisiva prestigio in Francia e poi, sotto l’impulso decisivo di Cavour, in Italia».

Nella vigna dove fino a pochi anni fa pregavano e lavoravano le monache, in cima all’incantevole centro storico di Saluzzo, il tempo sembra invece essersi fermato. Forse non è un caso che proprio qui, come ha raccontato un altro appassionato enologo amatoriale, il dentista Gianfranco Devalle del Consorzio di tutela dei vini Colline Saluzzesi, sia stata ritrovata una delle poche piante di uva luglienga  sopravvissuta all’invasione della filossera in Europa, a fine Ottocento.

Ora una parte dell’ampio giardino delle clarisse ospita, perfettamente integrate nel contesto dell’ambiente, circa 600 viti di Pinot Nero e Chardonnay: «Ci stuzzicava l’idea delle bollicine – spiega Luigi Fassino -, così ci siamo messi alla prova con il metodo champenoise, quello dello champagne, che curiosamente viene prodotto con l’uva nera. Il primo raccolto è del 2014, abbiamo affidato a Roberto Abellonio di Alba la spremitura soffice, praticata per non rompere le bucce, cioè per evitare il passaggio delle sostanze fenoliche nella polpa. A Pasqua del 2015 il mosto è diventato vino, imbottigliato con zuccheri e lieviti per la rifermentazione in bottiglia. Poi a riposo per due anni, al buio, senza essere mosso. Infine la sboccatura, il nostro è un millesimato, cioè rimboccato con vino della stessa annata. Da 850 chilogrammi di uva, abbiamo ricavato 810 bottiglie di vino, praticamente una ogni chilo di uva. Ma se facessimo il cambio con quello bevuto durante la vendemmia – sorride Fassino -, allora ne rimarrebbe ben poco».

Come lo Chatus del Bric Aut di Brondello, anche le bollicine delle Clarisse di Saluzzo non hanno prezzo, nel senso che non sono in vendita. Sono figli di un amore vero, incondizionato e disinteressato, nati per pura passione.

 

(Nella foto, da sinistra: Giovanni Benedetto, Luigi Fassino e Santo Alfonzo)