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Quando l’Imu diventa il salasso degli affittuari


Con l’11 novembre, San Martino, è terminata l’annata agraria e si è entrati in un periodo piuttosto “critico” per l’agricoltore, in coincidenza col pagamento del canone di affitto dei terreni.
E’ questa, quindi, l’occasione per fare il punto della situazione relativa all’andamento degli affitti agraria.
Negli ultimi anni questi hanno evidenziato una consistente corsa al rialzo, in molti casi ingiustificata (almeno fino all’introduzione dell’Imu) che troppo spesso è apparsa più frutto di “speculazioni” di una parte dei proprietari ai danni degli agricoltori che di reali motivazioni di carattere economico. Ancora più accentuata appare oggi questa tendenza, a causa dell’introduzione della nuova imposta, l’IMU, che effettivamente va ad incrementare notevolmente la tassazione a carico della proprietà giustificando, questa volta non a torto, le richieste di aumento che giungono da più parti.
Evitiamo, però, di trasformare un’imposta sulla proprietà in un ulteriore salasso ai danni degli affittuari; non è possibile accettare l’idea che questo incremento di imposte debba essere “scaricato” per la maggior parte sui conduttori.
La libera contrattazione tra le parti, alla base degli accordi siglati attraverso l’art. 45 della legge 203/82, nella realtà dei fatti, troppo spesso costringe l’affittuario ad accettare condizioni onerose pur di salvaguardare l’integrità aziendale e la possibilità di continuare nella propria attività lavorativa. Ancora più preoccupante, però, è il fatto che da alcuni anni la totalità dei contratti viene stipulata fissando canoni che risultano slegati dalla reale redditività del fondo. In poche parole viene definito un canone fisso in euro con l’eventuale aggiornamento annuale Istat o della Commissione Provinciale, con l’intento principale di salvaguardare il reddito della proprietà senza tener minimamente conto dell’andamento dei prezzi di mercato dei prodotti o delle potenzialità produttive del terreno. Inizialmente tale decisione poteva avere una sua giustificazione dettata dal cambiamento del quadro normativo comunitario, con la riduzione dei prezzi di intervento dei cereali, il conseguente calo dei prezzi di mercato e l’introduzione dei contributi diretti alle aziende (attualmente sotto la forma dei “diritti di produzione”); col tempo però tale meccanismo ha evidenziato una allarmante tendenza a favorire incrementi indiscriminati e costanti dei canoni slegandoli sempre più dalla realtà del mondo agricolo.
E’ necessario, allora, ridefinire i parametri entro cui stipulare i nuovi contratti in modo che il canone sia indice della reale fertilità e potenzialità produttive del terreno e che le variazioni annuali siano legate all’aumento o diminuzione di reddito generato dal suolo stesso; insomma evitare quanto successo negli ultimi anni in cui si sono registrati incrementi dei canoni a fronte di una riduzione, anche consistente, dei prezzi agricoli. L’accordo deve necessariamente coinvolgere entrambe le parti in gioco e solo in questo modo sarà possibile inquadrare al suo interno la maggior parte degli affitti.
(Silvio Chionetti, Cia Cuneo)