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“Ogm, perchè Carlin Petrini non mi convince”


Scrive Carlin Petrini sul sito di Slow Food: “Gli ibridi (di mais) studiati in laboratorio – e non parliamo di Ogm in questo caso, gli Ogm sono soltanto l’ultima frontiera del processo – per essere coltivati su milioni di ettari hanno sostituito le vecchie varietà, che si sono perse e si continuano a perdere a gran velocità”.
In altre parole: le innovazioni tecnologiche e le tecniche di coltivazioni avanzate, secondo Carlin Petrini, distruggono la biodiversità.
Siamo d’accordo con Carlin Petrini che occorra una certa prudenza nell’impiego di sistemi produttivi rivolti all’incremento quantitativo, ma la sua idea di biodiversità ci sembra molto parente con le teorie del fissismo e del creazionismo. Da come Carlin Petrini pone la questione, sembra che la natura si sia conservata fino ad ora intatta e sia la prima volta in quest’epoca che l’uomo abbia incominciato a manipolarla.
L’uomo invece ha da sempre sfruttato la biodiversità naturale, scegliendo di volta in volta le piante più utili ed abbandonando quelle meno produttive. La perdita della biodiversità è iniziata quando gli uomini da cacciatori e pastori nomadi si sono trasformati in agricoltori stanziali. Nel corso degli ultimi due secoli lo sfruttamento della biodiversità naturale è stata integrata da una biodiversità generata dall’azione umana, che ha operato per modificare il patrimonio genetico delle piante tramite incroci tra individui della stessa specie e, successivamente, per selezionare le varianti genetiche superiori.
Il triticale, ad esempio, un incrocio tra segale e frumento, è stato realizzato alla fine dell’Ottocento, quando ai nostri nonni apparve chiaro che la possibilità di creare ibridi costituiva un elemento di importanza straordinaria, perché in questo modo era possibile catturare i “migliori” caratteri di più cereali e di riunirli in un’unica specie.
E’ innegabile che la manipolazione della natura desti sempre un po’ di sconcerto, ma la questione del rapporto tra uomo e natura è più complessa di come spesso la si presenta. Il caso del mais, che nel Carlin Petrini pensiero è l’emblema delle colture “industriali”, ci aiuta a capirlo meglio.
Innanzitutto è accertato che uno degli eventi chiave nello sviluppo dell’agricoltura moderna fu il momento in cui gli agricoltori mesoamericani riuscirono a trasformare selettivamente, 7.000 anni fa, il teosinte, una pianta selvatica che cresceva nella Sierra Madre messicana, nel mais, che è ormai la terza coltivazione più diffusa nel mondo dopo il riso e il grano. Già 7.000 anni fa quindi l’uomo interveniva sulla natura.
Da quella trasformazione deriva anche il mais Otto File (produce una sola pannocchia con otto file di chicchi, da qui il suo nome), ”antico” mais non ibrido, che fin all’inizio del secolo scorso era coltivato in quasi tutto Piemonte, sia in pianura che sulle colline, ed ha una capacità produttiva di circa 18 quintali per ettaro.
L’Otto File viene anche chiamato mais del Re perché da notizie storiche il primo a farlo coltivare fu il re Vittorio Emanuele II, nella sua tenuta di caccia di Pollenzo in provincia di Cuneo. Il mais Otto File oggi è considerato un mais “tradizionale”, ma se all’epoca fosse esistito un Carlin Petrini, avrebbe gridato all’attentato alla biodiversità, perché soppiantava altre varietà di mais “tradizionali”. Non c’è un prodotto tradizionale che prima non sia stato una novità.
Se il mais Otto File, ottimo per farina da polenta, dovesse ancora essere usato, invece degli attuali mais ibridi, per alimentare le vacche da latte ed i bovini da carne – a questo scopo è destinata la quasi totalità del mais prodotto oggi – i prezzi del latte e della carne salirebbero di cinque o sei volte e diventerebbero inaccessibili per la stragrande parte della popolazione.
L’uso dei mais ibridi, la cui resa in granella può arrivare fino a 150 quintali in terreni irrigui, ha consentito di contenere notevolmente i costi di produzione della carne e del latte, cosicchè tali prodotti sono ora accessibili a tutti.
Sarebbe grave che i mais più antichi, quali l’Otto File, ma anche il Marano (varietà di mais selezionata all’inizio del Novecento nella zona di Marano Vicentino dall’agronomo Antonio Fioretti), scomparissero ed è giusto sostenere chi ancora li coltiva, ma un ritorno generalizzato alla coltivazione di tali mais è improponibile. La lievitazione dei prezzi del latte e della carne sarebbe tale da sconvolgere le abitudini alimentari della gente.
Impedire alle imprese agricole italiane di avvalersi delle tecnologie che migliorano le rese unitarie significherebbe di fatto negare il diritto alla gente con meno disponibilità economiche di nutrirsi in modo completo ed equilibrato (qualche famiglia incomincia a non avere neppure più i soldi per comprare il latte nonostante valga meno di una tazzina di caffè presa al bar).
Insomma, sotto una certa difesa della biodiversità si nasconde un’idea classista della società, che non può essere aggirata con qualche slogan ad effetto del tipo “la qualità è un diritto di tutti”. E’ vero che la qualità è un diritto di tutti, ma se i cibi di qualità costano troppo, rimangono un diritto soltanto per un’elite.
L’agricoltura moderna deve garantire ai cittadini prodotti sicuri a prezzi accessibili, essere competitiva sul mercato globale e nel contempo sostenibile. Impresa difficilissima. Le si può chiedere anche di più, persino di tornare a produrre il mais Otto File, ma quello che le si chiede in più non può andare a detrimento né dei bilanci aziendali né del diritto della gente di poter disporre di quantità di cibo sufficiente a prezzi accessibili. Il di più deve essere pagato dalla collettività, ma visti i tempi che stiamo attraversando è di grazia che le cose non peggiorino.

Roberto Barbero, presidente Cia Torino