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La “rivoluzione verde” alla prova della fame


A partire dalla metà degli anni ’40 si è assistito ad una svolta nel settore agricolo che ha cambiato il modo di coltivare la terra in diverse regioni del mondo, attraverso l’impiego di varietà vegetali geneticamente selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci, acqua e altri investimenti di capitale in forma di mezzi tecnici, favorendo raccolti abbondanti e contribuendo a migliorare le condizioni di vita di molte popolazioni. La cosiddetta “Rivoluzione Verde”.
Secondo le stime FAO, nel 2050 la popolazione mondiale potrebbe superare i 9 miliardi, e sarà pertanto inevitabile un nuovo forte incremento della domanda alimentare, per far fronte al quale la produzione agricola dovrebbe ancora aumentare del 70%. Poiché la superficie destinata ad uso agricolo nel nostro pianeta è aumentata fino alla prima metà degli anni Novanta, si è stabilizzata per circa un decennio, ma poi è iniziata a calare, sarà necessario aumentare la produttività per unità di superficie. Se si dovesse produrre cibo per 9 miliardi di abitanti con tecnologie antiquate gli agricoltori sarebbero costretti a operare su almeno il triplo delle terre oggi utilizzate.
La rivoluzione verde non si è rivelata priva di effetti negativi sull’ambiente, di cui gli stessi agricoltori sono consapevoli. La grande sfida del futuro sarà quindi aumentare o mantenere la produttività agricola, ma in maniera sostenibile, e cioè riducendo l’uso delle risorse ambientali ed energetiche. Occorre in altre parole una “nuova rivoluzione verde”, che non significa affatto andare indietro, ma andare avanti con l’ausilio alla scienza ed alla tecnologia che devono aiutare gli agricoltori a produrre di più utilizzando meno chimica e meno acqua, ad immettere meno co2 in atmosfera, ecc.ecc.
Gli ambientalisti lamentano che a causa della modernizzazione dell’agricoltura si sia registrato anche un impoverimento della base genetica, ricorrendo non di rado a toni apocalittici. Talvolta pare che nel post-moderno, sepolte le grandi narrazioni, si debba finire per annientare il nemico “totale”: l’uomo stesso e il suo bisogno di vivere sulla terra.
La questione posta dagli ambientalisti, tuttavia, non è campata per aria, ma dovendo scegliere tra coltivare varietà tradizionali (sul termine tradizionale si potrebbe aprire un dibattito: il mais Otto File oggi è considerato tradizionale, ma a metà Ottocento rappresentava un’assoluta novità) e poco produttive per pochi eletti, o garantire a tutti, coltivando le nuove varietà, cibi sicuri a prezzi accessibili, l’agricoltura ha scelto la seconda strada.
La tecnologia agricola all’inizio del 900 nutriva a malapena 1.5 miliardi di esseri umani, mentre il sistema agricolo attuale garantisce la sicurezza alimentare a 6 miliardi di abitanti del pianeta. 900 milioni sono tuttora al di sotto della soglia di sicurezza alimentare (il 15% della popolazione globale), ma se si leggono le statistiche si coglie il fatto che gli individui al di sotto della soglia di sicurezza alimentare erano 900 milioni anche nel 1970 quando rappresentavano oltre il 30% della popolazione mondiale, per cui si evidenzia un palese miglioramento.
Un certo ambientalismo, inoltre, sembra ignorare che l’agricoltura è anche economia reale. Le aziende agricole non possono quindi fare, per così dire, della filosofia ed adottare procedure agronomiche che le metterebbero fuori mercato.
Tuttavia la riduzione della varietà delle forme viventi e degli ambienti e la semplificazione dei paesaggi, dovuta all’attività umana, rappresenta oggi un problema.
La risposta però non può essere il ritorno generalizzato alle varietà del passato, rinunciando agli innegabili benefici conseguenti all’adozione delle nuove varietà, ma l’introduzione di forme consistenti di sostegno per quegli agricoltori che, soprattutto nelle aree marginali, provvedono alla conservazione delle varietà vegetali, e delle razze locali, assicurando la loro salvezza dal rischio di estinzione o di erosione genetica.
In Parlamento giacciono diverse proposte di legge in tal senso, di diversi esponenti politici. Ad esempio la proposta di legge numero 2744 presentata nella scorsa legislatura “disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità agraria ed alimentare” a firma di Susanna Cenni che raccolse in pochi giorni numerose adesioni di suoi colleghi della Camera tra i banchi della maggioranza e della minoranza.
Se gli ambientalisti si battessero perché le proposte di legge, come quella presentata dall’On. Cenni diventino legge, piuttosto che avanzare soluzioni improponibili, farebbero un servizio migliore ai fini del recupero, della riproduzione e della conservazione della agrobiodiversità.

Roberto Barbero, presidente Cia Torino