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La montagna di oggi tra miseria e nobiltà


Bisogna aver capito molto dell’esistenza umana per vivere in montagna. E bisogna essere matti dentro per mettere su un’impresa agricola in montagna, o anche non chiudere e andarsene a far altro, ammesso che si trovi ancora altro da fare.
La montagna che intendo è ripida e difficile, non i fondovalle pianeggianti a 500 metri d’altitudine ma i prati scoscesi, le rive dritte e assolate, le piste forestali che si fanno torrenti, i boschi da tagliare in lunghe giornate di solitudine, in compagnia di motosega e verricello.
Una montagna di stalle costrette a non ampliarsi per mancanza di foraggio o costrette – per ovviare al problema – ad alimentare gli animali con fieni della bassa o dei francesi, costrette per questo a svendere vitelli eccezionali alle stalle della pianura, a vedersi prendere gli alpeggi in aste con valori da usurai.
Una montagna di costrizioni e restrizioni, di servizi carenti, di figli che trascorrono ore infinite sui pullman per frequentare le superiori, di gente che lascia le borgate per trasferirsi nei moderni dormitori di fondovalle, a Borgo, a Busca, a Piasco, a Dronero…
Una montagna in cui i funghi sono “res nullis” cioè praticamente roba di tutti e patrimonio di nessuno, in cui i montanari dopo aver pulito il bosco devono pagare una tassa e prendere il tesserino per raccoglierli e poi trasformarsi anche in gendarmi per non farseli portare via.
Una montagna in cui sovente bisogna combattere anche contro chi è venuto a starci dopo anni di asfalto e crede che in montagna debba restare tutto immutato, fermo, selvaggio.
Una montagna che ha enormi risorse rinnovabili ed economicamente redditizie: l’acqua, il legname, gli animali allevati in quota, gli animali selvatici, ma che finora ha saputo solo regalarli ad investitori privati avendo in cambio l’elemosina sufficiente per far quadrare miseri bilanci privi soprattutto di progettualità e di reale voglia di futuro.