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La decrescita agricola non può essere felice


Beppe Grillo è la star del momento: teleguida i “suoi” cinquestelle e lancia anatemi, riempie le piazze delle città e quelle del web, provocando ed accusando, ma – per ora – non rispondendo alle domande. Nella sua veste di predicatore del mondo perfetto da tempo sostiene l’economia dell’autoproduzione, dell’autoconsumo e del baratto.
Nella recensione del libro “La decrescita felice” di Maurizio Pallante, il signor Grillo disserta di economia con riferimenti anche all’agricoltura sostenendo che “comprare di meno vuol dire far diminuire il Pil, ma non per forza significa avere di meno: basta prodursi da sé o scambiare con altri autoproduttori quel che non si compra più”.
La teoria della “decrescita felice” può anche risultare affascinante, ma in via teorica appunto, alla prova dei fatti e su volumi economici reali diventa inapplicabile. Coltivarsi quattro pomodori e due teste d’insalata in un orto ai margini della ferrovia o su un balcone può pure risultare fattibile, ma il valore economico non incide certo in maniera significativa sui volumi e valori dei prodotti commercializzati.
Se parliamo in concreto di polli, galline, maiali o vacche e vitelli la teoria di Grillo sfonda nella conclamata irrealtà. Vuole davvero farci autoprodurre o peggio barattare il milione e 250 mila tonnellate di carne di pollo realizzate ogni anno in Italia? Ed i 12 miliardi di uova prodotti li facciamo tutti nei sottoscala dei palazzi per poi barattarli con i 2 milioni e mezzo di tonnellate di mele prodotte nel nostro paese? Oppure ci rivolgiamo sul mercato mondiale del baratto (sempre se c’è) e li scambiamo con il milione e mezzo di tonnellate di nocciole prodotte nel mondo?
Domande semplici e banali forse ma che attendono risposte adeguate. Nell’attesa, sorgono altre questioni, fra tutte una: ma il signor Grillo, ad esempio, cosa avrebbe da barattare?