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Coltivare la conoscenza paradigmi contro la crisi


Coltivare la conoscenza, nuovi paradigmi oltre la crisi. Il tema del convegno di mercoledì 17 luglio all’Università degli studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo è stato introdotto dalla relazione, che di seguito pubblichiamo in ampio stralcio, del rettore Piercarlo Grimaldi, alla presenza delle ministre dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo, e della Ricerca e Università, Maria Chiara Carrozza.

Dal drammatico autunno del 2008 tanto l’orizzonte globale quanto l’orizzonte nazionale è stato segnato da una profonda incertezza, da una costante erosione del sistema delle garanzie che sembrava essere un’inviolabile conquista del secolo appena trascorso. Un’incertezza che genera percorsi di precarietà sempre più avvertiti, che richiede una presa di coscienza nazionale, la ricerca di un condiviso progetto per un futuro sostenibile che ponga al centro l’uomo quale cifra ultima dello sviluppo.
In questo quadro di drammatica insostenibilità sociale, economica e culturale il settore agroalimentare sta registrando una sostanziale e continua crescita delle esportazioni e rappresenta uno dei distretti produttivi che fonda la sua fortuna in quanto espressione del made in Italy, di quella capacità dell’imprenditore italiano di interpretare creativamente il complesso processo produttivo, delle maestranze che sanno coniugare ancora, come nei trascorsi contadini, oggetti, risorse esauste al fine di dare loro nuova vita. L’aristocrazia operaia ha contribuito a forgiare il made in Italy, trasferendo questo patrimonio di creatività rurale nella fabbrica. Ora il sapere che si fonda sul gesto e sulla parola, sulla fabrilità dell’individuo di ri-combinare il materiale con l’immateriale, sulla capacità del saper fare con la capacità del far fare, rappresenta un modello educativo esperienziale che la didattica del presente sembra aver dimenticato.
Se il made in Italy è, dunque, capacità produttiva di progettare a partire da una rinnovata memoria che affonda le origini nelle trascorse sfide produttive che, tuttavia, abitano e arricchiscono ancora il nostro paesaggio, possiamo sostenere che il Paese potrà risorgere dalla crisi in atto se saprà ri-trovare le competenze espressive e creative che altre culture, meno segnate, gratificate dalla bellezza, non sempre hanno a disposizione.
In questo quadro la cultura del cibo non potrà che riaffermarsi come un’importantissima risorsa per la nazione, la conferma di un’agricoltura votata all’eccellenza, dove l’innovazione si declina con la tradizione, a ri-delineare un modello di sostenibile sviluppo capace di diffondere ricchezza a dispetto della difficile fase storica che stiamo attraversando. È così che si conferma il valore di quel nuovo linguaggio del buono, pulito e giusto, generato da Slow Food e consolidato dalle linee didattiche e dalla ricerca di questo Ateneo (Petrini, 2005).

Il nuovo linguaggio del cibo
Christof Koch, un importante neuroscienziato, docente di Biologia Cognitiva e Comportamentale al California Institute of Technology di Pasadena, in un recente volume che affronta il tema della coscienza,
legge nel movimento Slow Food uno degli emblematici esempi di ciò che l’uomo attraverso il linguaggio è riuscito a costruire. Così scrive:
“Il vero linguaggio permette a Homo sapiens di rappresentare, di manipolare e di disseminare simboli e concetti arbitrari. Rende possibili le cattedrali, il movimento Slow Food, la teoria della relatività generale e Il Maestro e Margherita, creazioni che vanno oltre le potenzialità dei nostri amici animali” (Koch, 2012, p. 51).
Sono certo che accomunare Slow Food ad altri grandi fondamentali dell’umanità sia un giusto riconoscimento, ancor più calzante e appropriato perché il movimento, nel corso di un quarto di secolo, è riuscito a formulare una nuova grammatica, una nuova sintassi del cibo e del connesso impegno sociale ed etico. Un linguaggio che si è consolidato attraverso i concetti di buono, pulito e giusto e che si esprime, nella prassi, attraverso le iniziative che, giorno dopo giorno, l’associazione porta avanti nei diversi territori del globo e ora anche attraverso l’elaborazione scientifica di quest’Ateneo.
Se partiamo dall’autorevole considerazione di Koch, è legittimo sostenere che Slow Food abbia effettivamente contribuito a segnare uno storico momento del linguaggio umano, dando un fondamentale contributo allo sviluppo, al consolidarsi delle Scienze Gastronomiche, che mossero i loro primi passi nei giorni dell’Europa napoleonica grazie all’ingegno di Jean-Anthelme Brillat-Savarin. In questo quadro di riferimento di originale creatività si deve leggere la nascita di questo Ateneo, fondato nel 2004 per iniziativa di Slow Food e del suo Presidente Carlo Petrini. Nei nove anni di vita, questa affascinante e inedita avventura didattica e scientifica si è aperta al mondo per diventare nuovo terreno di scambio e conoscenza per una communitas internazionale di giovani e studiosi interessati alle culture dell’Italia e ai saperi gastronomici del mondo. Quotidianamente l’Ateneo contribuisce creativamente al consolidarsi dei fondamenti scientifici di queste scienze attraverso un approccio olistico, che si fonda, si sviluppa e si sperimenta con i terreni gastronomici del mondo di Slow Food. L’olismo critico che esprime l’Ateneo ha portato a ricercare sintesi creative tra i saperi tecnico-scientifici e umanistici che si esprimono nei nostri interdisciplinari corsi di studio e nei tanti progetti di ricerca che l’Università ha saputo sviluppare. Alla luce di questi contributi, che si traducono anche in numerose e prestigiose pubblicazioni, possiamo riconoscere in Pollenzo, non solo metaforicamente, una nuova “cattedrale” in cui i dichiarati e rinnovati saperi del cibo prendono forma ed il nuovo linguaggio della gastronomia trova riformata pratica ed epistemici fondamenti.

Il linguaggio di Pollenzo
Guardando a Pollenzo, in una visione diacronica comparativa si potrebbe dire che se le cattedrali del Medioevo sono i luoghi in cui ha visto la luce quel nuovo modo di pensare l’uomo che prende nome di Umanesimo, nella nostra piccola ‘cattedrale’ del post-moderno stiamo assistendo al nascere di un nuovo modo di pensare il cibo, sempre più percepito come un indirizzo di senso, come una risposta forte all’incertezza che il mondo vive. Questo dato emerge chiaramente dalla sempre più marcata attenzione che studenti di tutto il mondo riservano al nostro corso di laurea in Scienze Gastronomiche e alle altre proposte formative: la laurea Magistrale, i quattro Master in inglese, i laboratori di analisi sensoriale, di comunicazione, di sociologia e di etnobotanica. Un interesse che appare aumentare in sintonia con l’evolversi della crisi, dando vita ad un quasi ossimorico nesso tra sviluppo e recessione. Questa tendenza positiva permette una sempre più attenta selezione dei nostri studenti, di quei nuovi gastronomi che già al presente, stanno facendo conoscere e radicare nei vari terreni del mondo il nuovo linguaggio del cibo che Slow Food e l’Università hanno scientificamente e creativamente coniugato. Se quindi la nostra Università è un luogo vitale di diffusione e radicamento del nuovo modo di sentire e fare gastronomia, è anche communitas in cui questo linguaggio si sviluppa e cresce attraverso esperienze di assoluto prestigio.
Le Tavole Accademiche sono un primo importante esempio: una realtà che intende riscrivere, in una sintesi creativa e originale, il significato presente della parola ‘mensa’. Nel corso del Novecento appena trascorso, ‘mensa’ è diventata sempre più sinonimo di non-luogo, di non-cibo, di esclusivo e talvolta incerto strumento di riproduzione biologica. Il tempo taylorista della fabbrica modella anche il cibo a sua immagine e somiglianza, facendo della mensa operaia e aziendale un luogo di parcellizzato fordismo gastronomico privo di connotazioni valoriali, affettive. Un progetto strumentale alla produzione che depotenzia quotidianamente l’identità delle persone che la frequentano. Ora, le Tavole Accademiche ci permettono di ripensare all’alimentazione quotidiana secondo le categorie del buono, del pulito e del giusto che l’Università sta elaborando e qui
sperimentando. Questo quadro teorico viene praticato a partire da un progetto che prevede un contenuto costo unitario per pasto e un’attenta politica volta a eliminare lo spreco, a non esaurire in pattumiera avanzi, alimenti non consumati. Venticinque prestigiosi cuochi, ogni anno si alternano ai fornelli di Pollenzo, diventando interpreti e sperimentatori di nuovi modelli di sana ristorazione collettiva. È la creatività di questi cuochi che, attraverso un sapiente bricolage alimentare, realizza un nuovo e consapevole modo di interpretare il tempo del pasto quotidiano. Pollenzo, dunque, un luogo di ricerca d’eccellenza, dove si sperimentano nuovi ritmi vitali, inediti paradigmi per una concezione alta, e altra dell’alimentazione.
L’Ateneo ha avviato un altro originale progetto formativo di riscoperta e riscrittura dei saperi gastronomici che ancora nel gesto e nella parola, nei saperi della tradizione trova i fondamenti per coniugare virtuosamente la fabrilità del passato con le più innovative tecnologie del presente: la scuola di Alto Apprendistato. Si tratta di una proposta formativa che coniuga i saperi accademici con quelli artigianali e vuole essere un’ulteriore nuova sfida, anche di metodo e di sostanza, alla crisi occupazionale dei giovani. Una sintesi didattica ardita che, forse per la prima volta, vede un’Università impegnata nel progettare quello che viene considerato tradizionalmente un lavoro manuale. Nella nostra proposta i lavori del panettiere e pizzaiolo, del mastro birraio, dell’affinatore di formaggi e del norcino diventano l’occasione per avviare un percorso di conoscenza materiale e immateriale, di pratiche fabrili e teoriche che, se coniugate opportunamente, definiscono un innovativo quanto inedito profilo professionale. Un percorso volto a creare un maestro artigiano capace di dare vita ad una sapiente e creativa ‘arte plastica effimera’, un progetto artistico d’eccellenza gastronomica, che vive e si esaurisce nel rapido tempo del consumo, ma che contribuisce a impreziosire quel quotidiano processo riproduttivo dell’umanità cui il cibo è destinato. La didattica trascorre tra l’aula e la bottega artigiana, permettendo allo studente di ‘rubare il mestiere’, così come si faceva un tempo, quando l’apprendista diventava artigiano ‘finito’ solo dopo aver condotto un lungo
viaggio nei diversi territori dove si esprimevano al meglio i saperi della professione che voleva apprendere. Questa formazione del passato, caratterizzata da una metodologia della pratica e dell’esplorazione spazio-temporale, viene qui riproposta declinando i saperi teorici – umanistici e tecnologici – con l’assunzione dei ritmi costitutivi che ogni singola professione artigianale genera e scandisce.
Le Tavole Accademiche e i corsi di Alto Apprendistato sono, dunque, una realizzata espressione del riconosciuto nuovo linguaggio che crea sintesi tra esercizio e teoria, tra innovazione e tradizione delle forme e delle pratiche del cibo. In particolare, queste due iniziative sono accomunate da un progetto antropologico particolarmente urgente per il nostro presente: restituire quella dimensione sociale ed affettiva che ha sempre caratterizzato il cibo, ma che la stolta vertigine di una certa modernità sembra aver cancellato. Il cibo in questo modo diventa nuovamente un commutatore per l’umanità, che è alla continua ricerca di tempi e spazi gastronomici quali ritmi costitutivi del percorso evolutivo dell’uomo.
La breve ma già intensa storia accademica di Pollenzo è stata possibile perché accompagnata e sostenuta da diverse istituzioni locali e nazionali, tra cui la Regione Piemonte, e da un originale progetto d’impresa. Aziende grandi e piccole, del settore agroalimentare e non solo, partecipano attivamente, in qualità di partner strategici e di soci sostenitori, al disegno economico e ideale della nostra Università dando vita ad un integrato modello creativo di collaborazione cognitiva tra scienza e produzione, tra formazione e occupazione, grazie ai nostri docenti che hanno saputo coniugare il percorso accademico istituzionale con le innovative richieste di progettazione e di sperimentazione che il mercato dell’agroalimentare sempre più richiede.
In questo quadro l’Ateneo ha conseguito lusinghieri risultati. I dati raccolti e analizzati da AlmaLaurea, riguardanti il profilo dei laureati italiani del 2012, indicano complessivamente come la nostra Università sia in grado di rispondere in modo ottimale alle aspettative e alle esigenze degli allievi, con una formazione scientifica ed umana foriera di prospettive significative nel mercato del lavoro e nelle esperienze di vita.
Confrontando il campione nazionale (208.478 rispondenti su un totale di 226.799, pari al 92%) con quello relativo alla nostra Università (51 rispondenti su 68, pari al 75%) si riscontrano risultati molto positivi e incoraggianti.
Il 94% dei nostri laureati dello scorso anno solare è soddisfatto dei rapporti con i docenti, esattamente il 10% in più del dato nazionale (84%). Si raggiunge cioè la quasi totalità di allievi soddisfatti dell’insegnamento dei nostri docenti e della loro capacità di attenzione ai loro bisogni e problemi, nonché dell’impostazione interdisciplinare del nostro curriculum di studi.
Il 78% dei laureati si iscriverebbe di nuovo al nostro Ateneo; anche in questo caso il 10% in più del dato nazionale (68%). In pratica i 4/5 dei nostri laureati mostrano di aver gradito il triennio di studi e rifarebbero la scelta effettuata.
Più del 74% dei nostri laureati si dichiara disposto a lavorare in uno stato europeo, a fronte del 44% del dato nazionale e più del 72% è pronto a varcare i confini continentali, mentre a livello nazionale la percentuale scende al 33%. Va notato che la differenza è di molto superiore alla percentuale di stranieri laureati presenti nel nostro Ateneo, il 22%, a livello nazionale l’0,8%. Ciò conferma che l’opera di internazionalizzazione che persegue la nostra Università sta dando buoni frutti nel formare giovani aperti alle esperienze e flessibili nella ricerca di un lavoro . Al di là dei dati di AlmaLaurea va però segnalato che il processo di internazionalizzazione del nostro Ateneo supera il 50% se si considerano gli studenti stranieri provenienti da oltre sessanta Paesi del mondo che complessivamente frequentano i nostri corsi di studio.

Fordismo alimentare e affettività gastronomica
L’idea del nostro Ateneo nasce sul volgere del Novecento, in una storia di breve periodo in cui l’alimentazione ha subito profondi mutamenti. Dal secondo dopoguerra, il cibo sembra, infatti, aver
subito una ri-scrittura del suo significato culturale, parallela e interconnessa alla più profonda trasformazione che ha vissuto l’Italia nello stesso periodo. Mentre la società italiana si scopriva operaia e iniziava a normare la propria vita sulla base della linearità del tempo fordista, abbandonando dietro di sé i saperi e le pratiche della tradizione, il cibo è diventato sempre più fast, merce funzionale ed assoggettata ai tempi e ai bisogni dell’economia, strumento necessario per fornire calorie al corpo, ma incapace ed incapacitato a fornire emozioni all’individuo. Nello stesso periodo i fuochi che, quasi selvaggi nei focolari, ancora rischiaravano e scaldavano lo spazio domestico della cucina all’inizio del “secolo breve”, sono stati domati grazie a stufe e fornelli e più recentemente dalle tecnologia della cottura che, non solo metaforicamente, li hanno spenti quasi per sempre. La cucina, spazio vitale, umano, femminile, disordinato, dominato dal cibo e dal mangiare nel mondo della tradizione, è diventato un luogo sterilizzato, statico, quasi privo dell’umano e svuotato del cibo, un posto apparentemente non pensato per cucinare, ma piuttosto per essere salotto, facciata razionalista del cosmo domestico. In questa corsa verso la modernità, l’uomo sembra aver perso il senso della filiera alimentare, la sapienzialità del cibo, i profondi saperi che avevano visto nell’alimentazione il primo e fondamentale elemento di cura del corpo e dell’anima, demandando ad altri, fuori di sé, la preparazione del cibo quotidiano. Il cibo è così diventato anonima merce, spesso pre-cucinata, pre-digerita, cui l’uomo si è rivolto ciecamente, ingordamente, attratto dall’abbondanza alimentare che la modernità aveva regalato a qualche parte di mondo, mentre la malora della fame era riconosciuta ad altre. Le conseguenze di questo progresso senza più radici sono davanti a noi e le possiamo leggere anche in quelle sempre più evidenti patologie alimentari che sono l’amaro frutto della nostra recente storia.
Seppure non si possa dire che al presente l’uomo abbia completamente abbandonato il sentiero di disumanizzazione e mercificazione del cibo, non mancano però sostanziali segnali di ripensamento, di un crescente disagio rispetto ad un modo di fare e usare il nutrimento in cui l’individuo è sempre più passivo spettatore anziché attore. Sono sempre più forti le istanze che portano un numero crescente di soggetti a recuperare quei saperi, quei regimi alimentari che hanno caratterizzato i nostri territori fino a solo pochi decenni or sono. Il cibo è diventato il mezzo per eccellenza per ricreare quelle comunità, quel modo di vivere e di condividere, nel suo complesso più umano, che il presente ha eroso. Il cibo sta dunque tornando ad essere cura del corpo e dello spirito, cercando da una parte una maggiore genuinità e salubrità del prodotto, dall’altra di recuperare quel patrimonio di conoscenza, sintesi organica, solo
apparentemente contradditoria, di saperi alti e di magismo contadino, che davano valore, significato e ne scandivano le pratiche ancora pochi decenni or sono.
In questa dinamica sociale, nuove e vecchie generazioni hanno ri-cominciato a guardare all’agricoltura come fonte di valori e a coniugare istanze di innovazione con la solida base delle tradizioni provenienti dal mondo contadino. Un modello di sviluppo capace da una parte di interpretare il cibo come elemento sostenibile, naturale, costitutivo della salute, dall’altra di valorizzare e interpretare i tratti simbolici e affettivi che ne sono parte integrante. In questa prospettiva il cibo si riconferma non solo volano economico per un Paese che vuole uscire dalla crisi, ma un elemento di primaria importanza per il benessere dell’uomo.
Questa nuova pratica di sviluppo lega quindi in un’indissolubile alleanza terra e salute: un nesso che già Cesare Pavese icasticamente esprimeva nel romanzo Il diavolo sulle colline: “Il corpo sano è come un campo che dà frutti” (Pavese, 1948, p. 72).
Il cibo appare sempre più il perno di un sistema capace da una parte di dare quelle risposte di natura economica che la società contemporanea insistentemente richiede, dall’altra di poter ritrovare in questo prodotto fondamentale un vettore di prevenzione e di cura, ciò sulla base di una critica interpretazione olistica, tesa ad armonizzare il corpo e la mente dell’individuo, al fine di ritardarne l’ingresso nel sistema sanitario che oggi denuncia già radicali quanto inquietanti segnali di depotenziamento.

Agricoltura, ricerca e conoscenza oltre la crisi
Il nuovo paradigma produttivo, frutto di una sintesi virtuosa tra agricoltura, conoscenza e ricerca, volto a salvaguardare le bio e le etnodiversità del pianeta, è oggi sempre più chiaramente un’alternativa positiva, da un punto di vista non solo economico, ad un modo, per molti versi oramai obsoleto, di intendere l’agroalimentare quale realtà quantitativa che riconosce il cibo in quanto merce: una strada proficua, che il sistema Italia ha già intrapreso, non solo culturalmente, ad esportare nel mondo.
In tal senso possiamo vedere tracciato dinanzi a noi un possibile sentiero per superare la crisi: un percorso che si esprime attraverso l’armonica, olistica sinergia tra agricoltura e ricerca e che può trovare attraverso il linguaggio di Slow Food, una prima, vitale espressione: in ultima istanza quel linguaggio di cui si è discusso, generatore di tempi nuovi. È questo un orizzonte di generosa
collaborazione tra i settori che i Vostri ministeri curano e guidano, al quale l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche crede e per il quale vuole offrire il suo contributo di esperienza e riflessione, al fine di progettare un futuro in cui l’umanità ritorni ad essere attore consapevole dei propri destini, a partire da quella terra e da quel lavoro che ci mancano.
Piercalo Grimaldi
rettore Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo

(nella foto: Piercarlo Grimaldi)