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Angelo Gaja svela i segreti dei vini


C’è l’elogio degli artigiani delle vigne nelle parole del più noto produttore di vini delle Langhe, Angelo Gaja, ospite domenica sera delle Cattedre ambulanti organizzate dall’Asar di Revello nella casa del Nespolo del suo presidente, l’architetto Paolo Pejrone.
Una relazione dotta e appassionata, che è anche una lezione di sociologia, storia, enologia, letteratura, turismo… Perché il vino, secondo Gaja, è tutto questo in un bicchiere, che quando è un “lusso” presuppone un racconto.
PRIMA IL TANARO. E il racconto, nella capitale della valle Po, comincia provocatoriamente dal Tanaro: «Dalla sorgente alla confluenza dei due fiumi – osserva Gaja – è il Tanaro a compiere il tragitto più lungo, per cui dovrebbe essere il Po a diventare Tanaro e non viceversa. O no?».
La natura è la prima cosa, anche se “il territorio da solo non vuol dire niente, senza uomini capaci di interpretarlo e valorizzarlo”. Si parla di come il clima abbia condizionato l’enologia, un tema non banale: «In passato l’inclemenza del tempo non consentiva la piena maturazione delle uve, per cui era prassi aggiungere un po’ di zucchero per “aggiustare” il vino. Dopo la guerra, giustamente si ritenne di intervenire contro gli abusi di tale pratica, ma i risultati furono disastrosi, perché aprendo all’utilizzo del mosto concentrato e dei vini del Sud, di fatto si alimentò per trent’anni una vera e propria frode commerciale».
SCANDALI AL SOLE. Uno scandalo, che però non scandalizzò nessuno, perché in fondo andava bene a tutti, come quando si introdusse il ritiro assistito delle eccedenze produttive, falsando palesemente i reali dati del mercato delle uve. Tutto sommato, anche qui andava bene ai produttori, che in qualche modo disponevano della compensazione, e ai commercianti, come strumento per calmierare i prezzi.
Lo scandalo scoppiò, invece, nel 1986, per la questione dell’utilizzo devastante del metanolo nel vino. Si puntò il dito contro qualcuno, ma Gaja ricorda che “per tre giorni le acque del Tanaro si tinsero di rosso”, segno che il fenomeno era andato al di là del sospettabile. In quel caso, annota Gaja, il merito fu della Magistratura, come a suo tempo lo fu di Camillo Benso Cavour, che, sindaco di Grinzane, mise a disposizione di tutti le conoscenze di un grande enologo francese, chiamato ad hoc per dare slancio alla viticoltura locale.
IL MARCHIO DELLE LANGHE. Il vino, dunque, come prodotto di un insieme complesso, con il marchio inconfondibile delle Langhe, riconoscibile in uomini come il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che dopo messa, a Dogliani, attingeva direttamente dai contadini le istanze del lavoro; gli scrittori Cesare Pavese, Beppe Fenoglio e Nuto Revelli, cantori del mito langarolo; il farmacista De Giacomi; l’inventore della Fiera del tartufo Giacomo Morra, l’industriale Michele Ferrero e la sua famiglia; i maestri produttori, dagli storici Renato Ratti e Bruno Giacosa, ai giovani Elio Altare e Domenico Clerico; il geniale Carlin Petrini, creatore di Slow food, insieme al suo omologo “commerciale” Oscar Farinetti, promotore di Eataly; i ristoratori stellati, portabandiera dell’alta qualità enogastronomica langarola nel mondo…
Un marchio che è proprio di prodotti inconfondibili, come la carne albese, il tartufo, il nebbiolo, oltre che del paesaggio.
UNA CELLULA LIBERALE. «Le Langhe sono una cellula liberale – osserva Gaja -, perché ognuno qui vuol fare per proprio conto, superare se stesso e il suo vicino di casa, a differenza dell’astigiano, dove la tendenza è stata a mettersi insieme, in cooperativa, cercando sostegno nei contributi pubblici».
In effetti, pare che nemmeno Einaudi abbia mai favorito l’investimento di denaro pubblico per opere infrastrutturali sul territorio provinciale: «Da noi prevale un sano individualismo – afferma Gaja -, gli artigiani del vino nelle Langhe sono circa un migliaio, molti dei quali di altissima qualità».
LA FAMIGLIA GAJA. Tra questi si colloca a pieno titolo la sua famiglia, di origine spagnola, dal 1859 produttrice di “vini di lusso e da pasto”, come recitava il biglietto da visita dei nonni, datato 1905.
«Mio padre Giovanni – dice Angelo Gaja, che porta il nome del nonno – è stato il più grande artigiano del vino che abbia mai conosciuto. Aveva il chiodo fisso della qualità, eliminava fino a due o tre annate di prodotto su dieci. Fu il primo a trasformare i mezzadri in salariati, nel 1948, molto prima che ci pensasse la legge, nel 1964, perché sapeva che solo eliminando la molla del produrre quantità, che era alla base del contratto di mezzadria, si poteva pretendere di lavorare sulla qualità».
Oggi Angelo Gaja ha 72 anni, una moglie e tre figli che lavorano in azienda. Il segreto del successo, dice, sta nel merito, ma anche nella buona sorte. Alla sua età, ritiene che la missione sia di coltivare la passione e di tutelarla, dando l’esempio ai figli, senza chiedere che lo seguano.
Fa una profezia: «Assisteremo a un ritorno all’agricoltura, soprattutto da parte di soggetti colti. Si produrrà per trasformare».

(nella foto: Angelo Gaja)